di Giorgio Gualdrini
Due chiese e una casa
Molti restauri sia pubblici che privati sono stati realizzati nel centro storico di Faenza negli ultimi decenni. Mancano però all’appello alcuni edifici che da tempo versano in un tristissimo stato di abbandono. Mi riferisco a due chiese dismesse e a un palazzo residenziale ora gravemente ammalato.
La chiesa di San Maglorio
Il complesso delle monache camaldolesi di San Maglorio nell’attuale via Campidori ha origini duecentesche. La primitiva costruzione era situata all’esterno del perimetro medievale della città e solo dopo la realizzazione delle mura manfrediane fu inglobata nel centro urbano.
Intorno alla metà del Quattrocento la struttura subì un rifacimento abbastanza radicale. A questa struttura appartenne anche la sopravvissuta lapide pavimentale del sepolcro di Cassandra Pavoni, l’amante di Galeotto Manfredi morta all’interno del monastero nel 1514.
All’inizio del Seicento fu avviata la ristrutturazione della chiesa quattrocentesca secondo le indicazioni del Concilio di Trento. Il progetto fu redatto dall’architetto imolese Domenico Bassotti. Nei secoli successivi l’edificio subì ulteriori rinnovamenti che nel 1858 culminarono negli inserti decorativi di Antonio e Romolo Liverani. Attraversati gli anni della campagna napoleonica e dell’istituzione del Regno d’Italia, le monache restarono nel monastero fino al 1888 quando si dovettero trasferire nel complesso conventuale di santa Caterina in via Cavour, abbattuto negli anni ’70 del secolo scorso per essere trasformato in un parcheggio pubblico. La chiesa di San Maglorio dismise la propria funzione religiosa subito dopo la guerra. Inizialmente inserita nel progetto di riorganizzazione del Museo Internazionale delle Ceramiche da poco tempo è definitivamente uscita da questa monumentale impresa costruttiva. Rimasta di proprietà ecclesiastica attende adesso un intervento di restauro e riuso che, proteggendola dall’avanzare di ulteriori degradi, non vada ad intaccare il carattere di questo interessante esempio di convivenza fra alcuni frammenti di arte romantica quale fu quella dei Liverani e le decorazioni pittoriche e plastiche di età barocca tutt’ora presenti.



la chiesa di San Maglorio, via Campidori
Le case Bazolini-Viarani-Caldesi
C’è una seconda struttura, questa volta di proprietà pubblica, che necessita di un urgente intervento di risanamento conservativo. È quella cui i faentini attribuisono il nome di “Case Manfredi”. Tale denominazione è impropria. Lo storico Lucio Donati ha infatti dimostrato – documenti alla mano - che questo edificio non appartenne al casato dei signori rinascimentali di Faenza. Forse fin dal primo nucleo costituito da una casa a torre duecentesca posta nell’angolo meridionale dell’isolato l’area fu di proprietà della famiglia Bazolini e poi, per tre secoli, dei Viarani. A loro si deve la costruzione del corpo centrale quattrocentesco gravitante su via Comandini. Nel secolo successivo – ricorda anche Vittorio Maggi in un suo recente studio - fu invece eretta l’ala su via Manfredi. Alla fine del Settecento il palazzo entrò in possesso dei Caldesi che nei decenni successivi si fecero promotori di una serie di ristrutturazioni e ampliamenti culminanti nelle soprelevazioni della due ali principali, nell’occultamento e nella parziale distruzione degli antichi soffitti a cassettoni e infine nella costruzione di un nuovo corpo di fabbrica, lungo e stretto, in fregio al confine con l’antico convento dei Servi di Maria. Un pittore della statura di Felice Giani assieme ad altri artisti fra i quali lo stesso proprietario Clemente Caldesi partecipò alla realizzazione dei nuovi apparati decorativi a parete e a soffitto. Subito dopo l’alienazione alla famiglia Padovani il palazzo si avviò verso una repentina decadenza. Già i primi anni del XX secolo furono segnati da interventi di ristrutturazione interna ed esterna che manifestarono ben poco rispetto per questo importante manufatto architettonico. Disabitato dal 1988, fu acquistato dall’Amministrazione Comunale nel 2002 per l’ampliamento della Biblioteca Comunale. L’assenza di manutenzione di questi ultimi decenni ha aggravato il degrado delle case Bazolini-Viarani-Caldesi, alle quali il neoarchitetto Angelo Banzola ha dedicato la propria tesi di laurea.
Un ricordo personale: alla fine degli anni ’80 del secolo scorso la storica dell’arte Bice Montuschi Simboli, presidente della sezione faentina di Italia Nostra, mi chiese di effettuare con lei e alcune altre persone un sopralluogo nelle cosiddette “case Manfredi”. Evidentemente i proprietari, già con l’idea di metterlo in vendita, le avevano fornito le chiavi ma l’intenzione di noi visitatori non era certo quella di acquistarlo. Conoscevo il complesso solo attraverso qualche documento scritto e qualche vecchia fotografia in bianco e nero. Vidi così l’androne quattrocentesco con le volte a crociera, i peducci e il già precario colonnato del portico in pietra serena rinforzato con massicci pilastri in muratura intonacata. Le ghiere d’arco e gli angioletti in terracotta erano ancora integri. Ammirai poi il loggiato tardo gotico parzialmente tamponato e i dipinti a tempera in alcune pareti e soffitti interni. Nel cortile, guardando il muro sottogronda del corpo di fabbrica secondario, fermai lo sguardo anche sui resti cinquecenteschi di una bella fascia a riquadri decorati con motivi floreali bianchi su fondo rosso.
25 anni dopo sono ritornato in questo luogo con il geometra Vittorio Maggi e con il fotografo Marco Cavina. Mi interessava mettere a confronto le formelle a foglia doppia presenti nella monofora della quattrocentesca casa di vicolo Bertolazzi che avevo restaurato qualche anno prima con quelle delle case Bazolini-Viarani-Caldesi. Correva l’anno 2013 ed essendomi stato chiesto di allestire all’interno del Museo Diocesano una mostra per il 700° anniversario della signoria manfrediana volevo approfondire ulteriormente il carattere dell’architettura del Quattrocento faentino prima dell’arrivo in città di Giuliano da Maiano. Ebbi la conferma che le formelle furono realizzate con lo stesso stampo impiegato anche per realizzare le ghiere delle coeve e vicinissime case Ragnoli da poco restaurate dal collega architetto Ivano Cantoni. Sono uscito tuttavia con una certa tristezza: erano passati cinque lustri e questo edificio, mai più soggetto a manutenzione, mi apparve in tutta la desolazione di un galoppante degrado accentuato anche dalle copiose infiltrazioni di acque meteoriche.



le case Bazolini-Viarani-Caldesi, via Manfredi - via Comandini
La chiesa dei Servi di Maria
La terza struttura, da molto tempo inutilizzata, è la settecentesca chiesa dei Servi di Maria all’incrocio fra corso Saffi e via Manfredi, a pochi passi dalle case cui ho accennato poco fa. Il complesso servita, al quale il neoarchietto Michele Meinardi ha dedicato nel 2015 la sua tesi di laurea, affonda le proprie origini nel XIV secolo. La prima chiesa fu ultimata nel 1343, lo stesso anno della morte di Francesco Manfredi, il primo signore della città che fra l’altro aveva finanziariamente contribuito alla realizzazione dell’opera, eletta a sede del proprio sepolcro.
Nei secoli successivi l’edificio di forme gotiche ospitò opere d’arte sacra di straordinario valore a testimoniare la sensibilità di questo ordine mendicante (e dei suoi benefattori) per la creazioni artistiche. Quelle sopravvissute sono oggi custodite in diversi luoghi: la Cattedrale, il Cimitero Monumentale, la Biblioteca Manfrediana, la Pinacoteca Comunale e soprattutto il Museo Diocesano. Non bisogna dimenticare che proprio nel convento faentino si formò quell’Andrea Manfredi da Faenza destinato a diventare superiore generale dell’Ordine, grande predicatore nonché insigne architetto. Fu lui, ad esempio, a dettare nel 1384 le linee del poderoso ampliamento del complesso servita di Bologna. Ora, mentre della bolognese chiesa dei Servi di Maria possiamo ancora ammirare gli interventi promossi da Andrea da Faenza, della chiesa trecentesca faentina è rimasto solo qualche modestissimo frammento.
Negli anni ’20 del Settecento l’antico spazio liturgico non doveva certo versare in buone condizioni statiche. I serviti decisero infatti di abbattere la chiesa antica per costruirne una nuova utilizzando in gran parte le basi fondali della struttura precedente. Progettista fu Giuseppe Antonio Soratini, monaco camaldolese, già autore della nuova chiesa del monastero femminile della Ss. Trinità in borgo d’Urbecco (l’attuale Sant’Antonino) ma noto soprattutto per gli interventi condotti nel complesso camaldolese di Ravenna, oggi sede della Biblioteca Classense. La nuova chiesa dei servi di Maria fu ultimata nel 1733 ma solo fra il 1773 e il 1775 fu eretto il campanile progettato dall’architetto ticinese Pietro Borboni, originario di Lugano. Dopo appena 23 anni l’intero convento fu oggetto delle soppressioni napoleoniche e i padri serviti abbandonarono Faenza. Mentre la chiesa divenne parrocchia diversi corpi di fabbrica gravitanti sui chiostri, vistosamente ristrutturati, ospitarono gli ambienti della Biblioteca Comunale. Dopo i gravi danneggiamenti provocati dalla guerra (il campanile e l’abside furono distrutti dai tedeschi nel novembre del ‘44) l’edificio sacro, sommariamente rattoppato, non fu più adibito al culto ospitando poi altre funzioni: anche una palestra sportiva e, in seguito, un deposito.
Nel 2002 il Comune di Faenza acquistò la chiesa e le immediate adiacenze edilizie per farne, unitamente alla Biblioteca e alle case Bazolini- Viariani- Caldesi, un sito di grande rilevanza pubblica. Da alcuni anni la facciata della Chiesa dei Servi, gravemente ammalorata, è protetta da un’impalcatura metallica che impedisce di scrutarne il volto.



la Chiesa dei Servi di Maria, corso Saffi - via Manfredi (foto Meinardi-Cavina)
Discussioni in città
Oltre che sul futuro del Salone dell’Arengo nel Palazzo del Podestà, inagibile in quanto non adeguato alle normative di sicurezza, da anni a Faenza si discute intorno al destino di questi tre edifici di notevole interesse storico-artistico. È vero che, dopo la crisi economica determinata anche dal ritmo forsennato delle nuove costruzioni in periferia il mercato edilizio si è fermato; ed è anche vero che le risorse finanziarie degli enti pubblici si sono ormai prosciugate ma è ugualmente molto triste assistere al degrado di manufatti edilizi che ebbero un tempo un ruolo importante nella vita della città. La soluzione del problema è certamente complessa ma mi sembra positivo che, qualche mese addietro, la pubblica amministrazione abbia dichiarato di voler mettere in atto una serie di operazioni tese alla salvaguardia e al riuso di questi immobili coinvolgendo anche gli operatori privati.
Resta però un interrogativo: secondo quali forme e quali modi avverrà il loro riutilizzo? Sembra che le case Bazolini - Viarani – Caldesi non potranno più avere una destinazione pubblica all’interno di quell’ipotizzato “polo culturale” che all’avvio del secondo millennio indusse l’Amministrazione Comunale ad acquistarle esercitando il diritto di prelazione: una sorta di “cittadella della cultura” che, assieme al risanamento del complesso servita, avrebbe dovuto estendersi a tutto l’isolato compreso fra corso Saffi e le vie Manfredi e Comandini. In realtà le cosiddette case Manfredi, nella loro lunga storia, ebbero sempre una prevalente destinazione residenziale e non è detto che tale forma d’uso, abbinata a un recupero degli spazi interni più prestigiosi a fini di rappresentanza, non possa essere perpetuata garantendo altresì l’integrale tutela di ogni più minuto apparato decorativo sopravvissuto alle trasformazioni.
Per San Maglorio e per Santa Maria dei Servi le forme e i modi del loro riuso appaiono più complesse. Il processo di secolarizzazione, assieme all’inevitabile caduta del senso del sacro e della pratica religiosa, ha determinato per molte chiese antiche l’abbandono della destinazione cultuale per la quale esse furono prima concepite poi costruite e infine utilizzate.
In tutti i paesi europei la dismissione di molti spazi liturgici ha assunto recentemente ritmi e proporzioni inimmaginabili anche solo qualche decennio fa. Al tempo delle soppressioni napoleoniche e del primo Stato Unitario l’alienazione di una parte rilevante di questo grande patrimonio comportò non poche sofferenze per la conservazione di alcune architetture ecclesiastiche poi sottoposte a riusi a dir poco impropri. Per Faenza un caso emblematico è rappresentato dalle vicende della chiesa di Santo Stefano Vecchio, un importante edificio a pianta ottagonale attribuibile alla cerchia di Giuliano da Maiano. Espropriato nel 1798 fu adibito a sede del Circolo Costituzionale napoleonico anche per esaltare le nuove virtù civili dell’arte e dell’architettura già sottolineate nel “Traité des beaux arts” scritto nel 1746 da Charles Batteaux. Mettendo a confronto il paesaggio naturale e il paesaggio artificiale costruito dall’uomo fu poi lo stesso Goethe nel suo “Viaggio in Italia” (1786-1788) a mutuare dal Batteaux la definizione dell’architettura come “una seconda natura che opera a scopi civili”. Il grande scrittore tedesco ricordò il testo del filosofo francese non guardando una chiesa bensì ammirando il monumentale ponte-acquedotto di Spoleto: una straordinaria opera di ingegneria medievale costruita sul baratro del torrente Tessino.
Poco dopo la campagna napoleonica il Santo Stefano Vecchio di Faenza fu parzialmente assorbito all’interno di un edificio che ne impedì la vista da corso Mazzini. Radicalmente trasformato al suo interno in seguito alla realizzazione di un solaio intermedio, ospitò nel tempo le più disparate funzioni fino all’attuale utilizzo come magazzino annesso a un negozio di abiti. Sono passati due secoli da quella dismissione e la premura per la tutela dei beni storici e artistici si è da tempo tradotta non soltanto in molte leggi ma anche in una sensibilità culturale oggi abbastanza diffusa. Tuttavia, come ha documentato il bolognese Andrea di Martino nel suo reportage fotografico “La messa è finita”, anche in Italia purtroppo non mancano esperienze condotte ai limiti del grottesco. C’è da sperare che a Faenza ciò non accada e che alla fine prevalgano misura e discrezione.
Aspettando Godot
Dopo la domanda sulle forme e sui modi dell’auspicabile restauro delle tre architetture alle quali qui ho fatto cenno, molti si chiedono anche: quando tutto ciò avverrà? Mi capita spesso di incontrare amici e colleghi che, tristemente, lamentano il progressivo stato d’abbandono di questi importanti frammenti di città.
Ora, ogni tristezza è l’approdo di un’attesa delusa e non è certo sufficiente affidarsi a una vaga speranza. Non vorrei che quest’ultima finisse per assumere le forme di quella stessa fiducia che di fronte ai resti del Secondo Tempio appena distrutto dall’imperatore Tito (era il 70 d. C.) il rabbi Aqiba ben Joseph cercò di comunicare ai suoi discepoli che erano molto angosciati in quanto si era appena avverato l’annuncio profetico di Geremia “Ridurrò Gerusalemme a un cumulo di rovine, a un rifugio di sciacalli” (Ger 9,10). Affinché i suoi amici potessero, nonostante tutto, sperare ancora il grande rabbino disse grosso modo così: non disperate perché, anche se tarderà a venire, ciò che tarda prima o poi verrà.
Ma, tale appello poteva forse bastare?
A molti faentini dispiacerebbe di dover rivivere l’esperienza dei due clochard Estragone e Vladimiro che, nella pièce "Aspettando Godot" di Samuel Beckett, ogni giorno attendono l’arrivo del signor Godot; ma Godot non arriva mai. Quando infine giunge il suo messaggero (un ragazzo senza nome) Vladimiro pone anche a lui la domanda che mille volte i due amici si erano posti l’un l’altro: “Il signor Godot verrà questa sera?” E il ragazzo: ”Nossignore”. Quindi Vladimiro affermò: “Ma verrà domani”. Allora il ragazzo, poco prima di fuggir via, confermò con un lapidario “Sissignore”. Poi naturalmente Godot non venne e in chiusura dell’opera teatrale, preso da sconforto, Estragone si lasciò scappare: “E se lo lasciassimo perdere?” aggiungendo però subito dopo: “Ma se poi viene?”. Vladimiro allora, togliendosi il cappello e guardandoci dentro come a cercare qualcosa che non c’è né ci può essere, rispose: “Saremo salvati”.
Il verbo salvare deriva dal latino servare che significa anche conservare, mantenere intatto. Anch’io mi auguro che gli edifici ai quali qui ho fatto cenno vengano conservati e mantenuti intatti restituendoli a vita nuova.